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  • Immagine del redattorecanisciolti17

PROVONCIALI


Sovente si utilizza “provinciali” in accezione negativa: “provinciale” è la squadra di calcio riversa tutta nella sua metà di campo a strenua difesa di un punto da conquistare contro la big di turno; “provinciale” una mentalità chiusa, da piccolo paese, colma di pregiudizi, preconcetti, retrograde. Peggio ancora quando viene utilizzato in accezione simil-positiva, con quei toni da compassione e tolleranza verso chi, miserabile, ha avuto la sfortuna di nascere in un piccolo paesino sperduto che non raggiungeresti nemmeno accendendo Google Maps, che poi ci prova pure a toglierselo di dosso quel sentore che si porta dietro, ma li rimane addosso, non ci può fare nulla.

Vituperio dell’adolescenza

Odio, amore e ponti, molta incoscienza

Andarsene con mille sogni e ritornare senza

Ma la provincia crea dipendenza

Se non ci sei nato non lo puoi capire (Pisa merda- Zen Circus)

Quando provi ad avvicinare a Leopardi un gruppo di studenti e studentesse, un approccio che funziona (esperienza sul campo) è questo: “Leopardi era come voi, un ragazzo che non sopportava l’occlusione che gli provocava quel posto piccolo di una piccola di provincia, dove non succedeva mai nulla, lontano da tutto, la città era la frontiera, l’orizzonte a cui tendere”. In fondo è vero che c’è un’età in cui sostanzialmente tutti, dalle “piccole città, bastardi posti” vorremmo fuggire via, andarcene verso spazi più ampi, per riprendere a respirare, perché quel respiro ce lo sopprime questo piccolo posto con le sue piccole cose, ogni giorno uguali, dove non succede mai nulla degno di nota. Di questa “estetica, anestetica, provincia ipnotica”, provincia a misura di Chiesa, dove “verso d’amore cerca fiato per non soffocare più”. Lo abbiamo quindi provato tutti l’odio verso quel suolo natio, anche gli ignari sono stati figli della Beat Generation, dove non contava dove andare, ma semplicemente andare, mettere strada sotto di sé, mettere chilometri tra sé e il punto da cui si è partiti, ormai insopportabile, perché se almeno una volta non vi siete detti “me ne vado di qua” a 16 anni allora vi dovreste fare qualche domanda su dei passaggi grossomodo obbligati della vostra vita. Ma questo non è un j’accuse alla provincia (onestamente non so nemmeno io cosa sia). Tondelli, quando nel 1985 lanciò il progetto Under 25, si accorse che larga parte dei manoscritti che arrivavano per essere valutati provenivano dai piccoli paesi di provincia, era sparita quasi del tutto quella capitale culturale che era per anni stata Milano, gli emergenti erano provenienti da piccoli paesi (cosa che tra l’altro era pure lui, nato a Correggio). Ma in fondo, su questo ha ben detto Enrico Palandri affermando che sostanzialmente questo paese non ha un vero e proprio centro ma solo una miriade di periferie, un corpo senza testa, con migliaia di articolazioni e senza testa. È interessante però come proprio alla luce di quel senso di oppressione che ti induce nascere in un piccolo paese, il posto privilegiato per vedere partire parenti, amici, amori, si sia nel tempo rivelato il traino di alcuni tra i più importanti mutamenti cui abbiamo assistito. Un’eterna contraddizione (di quelle da poesia low quality, commerciale squallida) così è il rapporto tra noi figli delle province e questa matrigna: la nostalgia in chi se ne va si oppone a una volontà spesso inconscia di non tornare più; la volontà di andarsene all’incapacità di slegarsi totalmente; l’odio profondo maturato in anni, che da ribellismo senza causa è diventato strutturato respingimento dei valori proposti, verso quell’immobilismo che si oppone alla necessità impellente di agire dall’interno, di smuovere anche la palude, di questi campanili con intorno le case.

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