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CALCUTTA (?)

  • Immagine del redattore: canisciolti17
    canisciolti17
  • 30 mag 2018
  • Tempo di lettura: 2 min


Un merito incontestabile della nuova generazione musicale italiana è di riuscire a creare attorno a sé il dibattito sulla sua effettiva qualità, canora, testuale, musicale. Ecco, dato che non ci interessa fare i passatisti e dire che a prescindere si stava meglio prima, quando in radio eravamo pervasi quindi di presunte popstar, molte delle quali sono state seppellite dal tempo e vivaddio. Se c’è un cantautore che più di tutti dimostra la capacità, per nulla scontata, di ballare tra una poetica semplice ma anche spesso esagerata, quasi irreale, ma allo stesso tempo cos’ quotidiana da rischiare la banalità, quello è Calcutta. Edoardo d’Erme, in arte Calcutta, il 25 maggio ha pubblicato il suo ultimo album, Evergreen, anticipato da tre singoli Orgasmo, Pesto e Paracetamolo, tre testi che vanno benissimo se si volesse tentare di dare un’idea della scrittura del cantautore nato a Latina, strofe almeno apparentemente anti-musicali e anche anti-poetiche, come la prima strofa di Paracetamolo, sembrano comunque destinate, proprio per questo senso talmente tanto grossolano di presunta banalità, a entrare in una sorta di immaginario collettivo. Il lavoro nel complesso mostra comunque una dimensione musicalmente differente rispetto a quelli precedenti, ma diciamoci la verità la capacità attrattiva di Calcutta non risiede in particolari composizioni musicali, in una testualità sempre ricca di luoghi, intendendo per luoghi proprio le città, nel percorso sull’atlante personale di Calcutta, nei testi che assestano secondo le sue volontà dei colpi precisi nell’ascoltatore, che in quel momento può decidere o di spegnere la radio, il computer oppure di continuare ad ascoltare quei testi che riescono in un certo modo ad entrati ben fissi in testa e ti portano a cantarli sotto la doccia o in macchina (ndr: appartengo alla seconda categoria). Ma Calcutta produce un dissidio anche nei suoi ascoltatori, pezzi stranianti che esulano totalmente dalla linea impostata fino a quel momento, un altro colpo ben assestato. Riuscire a spingere sulla semplicità, tanto da farla suonare in alcuni casi una semplicità irreale, vuol dire sfidare il senso del ridicolo e il rischio di banalità, ma vincendo questa sfida ciò che si produce è di avere dei pezzi che rischiano anche di diventare generazionali e identificativi, Calcutta come rito collettivo. Ma nella sempre divisa critica ai suoi lavori i detrattori gli contestano proprio questo, eccessi di banalità, idiozie, arrivando quasi fisiologicamente a paragonarlo ai grandi del passato e ai tempi andati che adesso non sono più. Indirettamente, o forse no, Calcutta ci dà un consiglio, che forse dovremmo fare “come Dario Hubner per non lasciarci soli mai a consumare le unghie”.

 
 
 

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